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Intervista a Sandra Biondo [a cura di Francesca Felici]

Intervista a Sandra Biondo, traduttrice editoriale

SB29mar2020

Ciao, Sandra. Per cominciare, parlaci un po’ di te…

Sono nata a Bologna, dove risiedo tuttora, nel 1962. Nel 1991 mi sono trasferita in Brasile per lavorare in progetti di cooperazione internazionale in ambito socio-educativo, con bambini, giovani e donne. Negli ultimi anni di permanenza nel paese ho frequentato con profitto il corso di Filosofia all’Università Cattolica e nel 2003 sono rientrata in Italia con un notevole bagaglio di esperienza, e una Laurea. Da allora mi guadagno il pane occupandomi di cose diverse, fra cui l’insegnamento del portoghese brasiliano e la traduzione editoriale. Fra i libri al mio attivo, spero che un giorno sarò ricordata per aver dato voce a Raquel de Queiroz, la prima donna ammessa alla prestigiosa Academia Brasileira de Letras (“Memoriale di Maria Moura”, Cavallo di Ferro 2006), per le meravigliose lettere dal Concilio Vaticano II di Dom Helder Camara (“Roma, due del mattino”, ed. San Paolo 2008) e per il romanzo che ha consentito al portoghese José Luis Peixoto di aggiudicarsi il Premio Salerno Libro d’Europa 2013 (“Libro”, Einaudi 2013). Poi, chissà, magari sarò ricordata anche per il prossimo libro…

La prima domanda che mi piacerebbe farti, Sandra, è su un tema di cui si parla molto a proposito del nostro mestiere: la “solitudine del traduttore”. Secondo te è qualcosa che corrisponde alla verità oppure è uno dei tanti miti che circondano la figura del traduttore?

Trovo che ci sia molta verità nell’affermazione che la traduzione è un lavoro solitario, molta verità ma non tutta la verità. È senza alcun dubbio un lavoro che si svolge in solitudine, ma qui mi viene in mente un gioco di parole della mia seconda lingua, il portoghese, che distingue la “solidão”, la solitudine vera e propria, dalla “sozinhez”, una parola inesistente che in italiano potrebbe suonare come “solità”. Quella del traduttore non è solitudine ma momentanea “solità”, perché quando si traduce si sta da soli, ma non si è mai soli (a meno che non lo si voglia essere). Al di là della retorica per cui siamo in compagnia dell’autore e dei suoi personaggi, ritengo che la solitudine sia un tratto più esistenziale che professionale. Si può essere traduttori e vivere un’intensa vita di relazione che, ovviamente, si svolgerà nei tempi della vita prima che in quelli del lavoro. Alla fine, un traduttore non è più solo di un restauratore che passa intere giornate piegato sull’opera d’arte da recuperare o di un manutentore elettrico che sta otto ore appeso a un traliccio dell’alta tensione. Non dimentichiamo poi che, proprio per la sua natura, il nostro lavoro ci dovrebbe portare a uscire per conoscere nuove realtà, a viaggiare (vedi domanda seguente), a visitare luoghi ed eventi; per non parlare delle attività legate alla promozione dei libri come fiere e festival, dove l’incontro con colleghe e colleghi rappresenta sempre un elemento di grande impatto e coesione; e delle liste di discussione, spazio di socialità virtuale e di mutuo soccorso linguistico e traduttivo, da cui negli ultimi lustri sono nate non solo grandi collaborazioni professionali e amicizie personali, ma anche l’esperienza che più di ogni altra coniuga professionalità e dimensione collettiva, e cioè la creazione del primo sindacato italiano dei traduttori editoriali. Per cui, direi: lavoro solitario sì, solitudine esistenziale non necessariamente.

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Grazie alla facilità di accesso agli strumenti digitali, uno degli aspetti caratterizzanti della professione del traduttore, il nomadismo, sembra essere ancora più accentuato. Secondo te, quali sono i reali vantaggi di questa caratteristica?

Lo dicevo poc’anzi: potersi portare dietro il lavoro e svolgerlo praticamente ovunque è una risorsa che ci permette di sfuggire alla staticità e all’isolamento intrinsecamente connessi alla nostra professione. Ovviamente, oggi la conditio sine qua non è la presenza di una buona connessione alla rete, visto che oramai non abbiamo più bisogno di portarci dietro intere biblioteche cartacee e ponderosi dizionari. Tuttavia, esiste un rischio concreto che questo nomadismo si trasformi in un’arma a doppio taglio: siccome posso lavorare praticamente ovunque, allora non stacco mai. Purtroppo, non è raro vedere anche fra i nostri colleghi atteggiamenti di martirio auto-inflitto, a volte ostentato come una medaglia o esaltato come una qualità, dove ci si vanta di lavorare sempre, di non andare mai veramente in vacanza, di “dover” trascorrere notti in bianco davanti al monitor eccetera. Certo, a volte può succedere di dover cavalcare un momento di vacche grasse ed essere costretti a ritmi particolarmente intensi di lavoro che sciaguratamente si sovrappongono alle agognate vacanze, ma dovrebbe essere l’eccezione e non la regola. Se dovessi dare un consiglio a colleghi esordienti direi: pianificate al meglio il vostro lavoro in modo da non trovarvi a dover sistematicamente rinunciare al sacrosanto diritto al riposo settimanale, alle ferie, a ritmi di vita compatibili con le relazioni sociali. Ripeto, può capitare, ma non deve diventare la regola. Ciò detto, viva il nomadismo e la mobilità! Mai come nell’inedito momento che stiamo vivendo, globalmente confinati nelle nostre case per colpa di un virus che non siamo ancora attrezzati a sconfiggere, salta agli occhi il privilegio rappresentato dalla possibilità di portarsi dietro tutto il proprio lavoro in soli 2 o 3 Kg di tecnologia.

Considerando anche la rapidità negli spostamenti oggi possibile al contrario di un secolo fa, cosa può aggiungere al lavoro del traduttore la conoscenza diretta dei luoghi dove è vissuto l’autore che sta traducendo?

Sarebbe bello che tutti i traduttori potessero conoscere personalmente ogni luogo in cui si svolgono le storie che stanno riscrivendo. Nonostante la rapidità degli spostamenti, un limite spesso invalicabile è costituito dal costo economico di viaggi e soggiorni all’estero. Tuttavia, le attuali tecnologie permettono anche di visitare i luoghi da remoto: ricordo una collega che in una lista di discussione anni fa raccontava come fosse andata a vedere le vie e i palazzi della città in cui si svolgeva il romanzo che stava traducendo usando Street View. Divertente, no?

Ad ogni modo, in alcuni paesi sono presenti programmi di finanziamento pubblico e privato a sostegno delle cosiddette Case della Traduzione, dove i traduttori vengono ospitati gratuitamente o quasi e possono lavorare immersi non solo nei luoghi ma soprattutto nel clima umano, culturale e linguistico dell’opera originale. Avendo questa possibilità, non me la lascerei sfuggire, soprattutto per l’elemento culturale e linguistico. Per quanto si possa essere competenti sulla lingua di partenza di un testo, spesso ci sono sfumature di significato che ci sfuggono e che non possono essere ritrovate sui dizionari né sui siti internet. L’ideale sarebbe poter leggere un testo con la stessa sensibilità di un madrelingua della lingua di partenza, così da poterlo efficacemente riscrivere facendo uso della nostra sensibilità di madrelingua della lingua di arrivo. Ma questo privilegio è riservato ai bilingui o poco più. Per questo, avendo la possibilità di trascorrere lunghi periodi nei paesi dove hanno origine i nostri testi, sarebbe bene sfruttarla.

Per concludere, quali consigli daresti a un traduttore letterario che vive all’estero per mantenere il contatto con la lingua madre? Penso non solo alla lingua scritta, ma alla lingua viva, quella parlata tra i banchi di un mercatino oppure dai giovani…

Direi che, oltre a permanenze più o meno prolungate nel paese della propria madrelingua, oggi ci viene in grande soccorso la rete. Abbiamo testate online, piattaforme streaming che ci permettono di assistere a film e serie tv in lingua originale, abbiamo altre piattaforme video, i podcast, la radio, le tv generaliste (per quanto, lo streaming di queste ultime abbia spesso l’accesso bloccato agli utenti che si trovino all’estero a causa di problemi legati ai diritti di distribuzione). E per quanto riguarda l’uso attivo della lingua abbiamo le videochiamate con una quantità di strumenti che in questi mesi abbiamo imparato a conoscere e a usare. Il mio suggerimento è di cercare di non lasciar mai trascorrere più di 48 ore senza un contatto, anche minimo, con la nostra lingua madre. Vivendo in un altro paese, la full immersion nel contesto linguistico straniero ci fa perdere parte della nostra spontaneità di madrelingua; non dimentichiamoci che il linguaggio non ha solo una sintassi legata alle parole, ma interferisce anche con quella che io chiamo “sintassi del pensiero”: pensiamo in un’altra lingua, e quindi anche il nostro raziocinio segue percorsi diversi. Quando riprendiamo a parlare la nostra lingua madre, ci trasferiamo dentro questa sintassi ‘altra’ e rischiamo di riempire il nostro testo di calchi. Oltre, ovviamente, al rischio concreto di non percepire i calchi come tali e quindi usare termini, verbi, espressioni della nostra seconda lingua riportandoli pari pari nella prima, con equivoci a volte assai divertenti. I colleghi italiani che traducono da lingue neolatine sanno bene di essere molto esposti a questo problema. Ricordo che una ventina d’anni fa, quando ancora vivevo in Brasile e lavoravo in progetti di cooperazione internazionale, avevo preso l’abitudine di mandare in Italia delle “circolari” nelle quali raccontavo cosa stava succedendo nel mio paese di adozione e nelle comunità con cui collaboravo. In una di queste, raccontando dei gravi problemi legati alla prolungata mancanza della pioggia, scrissi due o tre volte “il problema della secca” anziché della siccità. Mesi dopo, durante una vacanza in Italia, incontrai un signore della mia parrocchia che si mise a elogiare le mie circolari “bellissime, interessanti, dovresti scrivere un libro”, salvo farmi affettuosamente notare poco dopo che in italiano la secca è quella dei fiumi (e sorvolo su mio fratello e sulla sua osservazione che quando rientravo in vacanza parlavo italiano “con accento genovese…). Per questo è necessario non recidere mai il cordone ombelicale che ci unisce alla nostra lingua madre e non permettere nemmeno che si sfibri, che diventi liso, che corra il rischio di sfilacciarsi troppo. Ora che abbiamo molti strumenti per continuare a praticare, passivamente e attivamente, la propria lingua madre, usiamoli!

Francesca Felici

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