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Intervista a Heddi Goodrich [a cura di Debora Carlacchiani]

Qualche anno fa, in occasione del mio intervento sulla traduzione mediata e sull’auto-traduzione presentato alla fiera editoriale LiB-Libri in Baia di Sestri Levante, ho avuto il piacere di scoprire Heddi Goodrich. Tutto è cominciato in modo apparentemente casuale (ma straordinariamente rilevante) quando in libreria mi hanno consigliato il suo romanzo d’esordio Perduti nei Quartieri Spagnoli (Giunti 2019). Cosa c’è di tanto particolare, chiederete voi? Ve lo spiego nella mia intervista a Heddi, scrittrice e traduttrice statunitense con un forte legame con l’Italia.

Lei ha esordito col suo primo romanzo scrivendo in italiano e non nella sua lingua madre. Perché questa scelta?

Non è stata in realtà una scelta, bensì una scoperta. Sono americana, senza nemmeno una goccia di sangue italiano nelle vene, e quindi mi sembrava logico scrivere nella mia madrelingua. E infatti la prima bozza del romanzo era in inglese. L’ho scritta vivendo ormai da diversi anni in Nuova Zelanda, dove l’italiano non mi serviva più, né per la lettura o gli esami universitari né per i rapporti affettivi. Era diventato un’abilità linguistica inutile, un dolce ma vago ricordo, quasi un fantasma.

Con la nascita del mio primo bimbo, la lingua è rientrata nella mia vita proprio nel modo naturale e domestico in cui vi era entrata tanti anni fa, quando a sedici anni feci uno scambio culturale presso una famiglia in provincia di Napoli. Parlare con i miei figli esclusivamente in italiano è stata una decisione razionale, presa in base ai vantaggi intellettuali del bilinguismo, ma ha avuto l’effetto inatteso di riavvicinare la mia anima alla lingua che avevo quasi dimenticato. Così l’italiano è tornato a far parte del mio quotidiano quasi come un codice segreto che usavo con i figli, la vera lingua del cuore a cui gli altri non avevano accesso.

La bozza inglese del romanzo non mi dava pace, ogni tanto ci mettevo mano senza mai trovare la mia voce di scrittrice. C’era qualcosa di forzato nei momenti poetici, qualcosa di artificioso nei momenti di introspezione, come se ci fosse una sottilissima vetrata tra me e la protagonista che non riuscivo ad attraversare. Sospettavo di aver scritto letteratura di evasione, e questo mi turbava molto perché i temi che toccavo nella storia – l’amore, la conoscenza, il destino – mi stavano molto a cuore.

Poi una mia amica neozelandese ha avuto un presagio che mi ha cambiato la vita: ha “visto” le pagine del mio libro, stampate e rilegate, ma non riusciva a leggerle perché erano in italiano. Ero incredula. Mi credevo completamente incapace di scrivere prosa in italiano: era un linguaggio inarrivabile. Ho interpretato il suo presagio come segno di cercare un traduttore esterno, ma non ho avuto successo. Per fortuna una mia amica napoletana mi ha fatto coraggio a provarci da sola: per la prima metà del primo capitolo si trattava in effetti di una traduzione quasi letterale, un po’ goffa e faticosa, dall’inglese, ben presto però si è rivelata una vera e propria riscrittura che man mano diventava sembra più radicale perché, nonostante le lacune semantiche che avevo, scrivendo in italiano riuscivo a sentire tutti i difetti del testo inglese; li sentivo proprio come delle note stonate. Sentivo se un termine suonava “giusto” o “sbagliato,” lo stesso per il ritmo delle frasi e dei capoversi, e intuivo subito quali modifiche dovevo fare. Ero improvvisamente capace di individuare ogni momento di inautenticità, ogni sciocchezza che avevo scritto, e il testo cominciava ad acquisire un tono completamente diverso. A volte le frasi mi “arrivavano” belle e fatte, le sentivo come sussurrate all’orecchio destro, sebbene nella mia stessa voce, e mi stordivano con la loro bellezza, saggezza e crudezza emotiva. Spesso queste frasi mi svegliavano di notte o a prima mattina e dovevo subito trascriverle nel mio taccuino che tenevo accanto al letto. D’un tratto tutto aveva un senso: i personaggi guadagnavano spessore, il dialogo diventava spontaneo e pieno di doppi sensi, la storia si arricchiva e si approfondiva. D’un tratto anche la mia vita aveva un senso. Scrivevo con una gioia sfrenata, un trasporto totale. Sono stati dieci mesi di pura magia, durante i quali mi sembrava di vivere quasi su un altro piano di esistenza.

La bozza inglese mi è servita da scheletro, da base strutturale, per muovermi da una scena all’altra, e ho modificato quella struttura soltanto in una fase successiva, cioè durante l’editing.

Perché ha deciso di curare anche la versione inglese?

È stato il mio editor a domandarmi chi l’avrebbe fatta, e io ho subito detto “Ma io, ovviamente!”, risposta che lui però già aveva anticipato. In verità fino a quel momento non avevo neanche considerato la possibilità che il romanzo potesse essere tradotto in altre lingue, tanto che ero contenta del miracolo di aver trovato finalmente la mia voce, di aver capito che l’italiano era la chiave di tutto. Non potevo sapere allora che auto-tradursi non è una cosa diffusa nel mondo letterario (almeno credo) – già da tempo lo facevo in casa e sul mio blog (http://heddigoodrich.blogspot.com/). E, siccome sono traduttrice anche di mestiere, non potevo immaginare le difficoltà che avrei affrontato a tradurre me stessa.

Ha trovato più difficile scrivere in italiano o auto-tradursi in inglese? Perché?

Neanche una settimana dopo aver completato l’editing del testo, il mio editor mi ha suggerito di cominciare a tradurlo in inglese. Mi venne paura che passando così presto all’inglese avrei perso la mia voce italiana, che sentivo ancora molto fragile. Avevo sviluppato quasi un rifiuto per la scrittura in inglese, che aveva dominato la mia infanzia e gran parte della mia vita adulta e poteva facilmente sovrastare il mio italiano precario e ancora pieno di piccoli errori (le preposizioni, il congiuntivo, ecc.). Mi sentivo minacciata: l’italiano era la lingua del cuore, l’inglese quella della testa – e la testa poteva ingannare.

Con l’incoraggiamento del mio editor, alla fine mi sono buttata nella traduzione con un senso di curiosità infantile e di sfida intellettuale. Ma le differenze nella scrittura sono state subito evidenti. Sono diventata di nuovo “sorda” come scrittrice, cioè in inglese non riuscivo più a valutare la melodia di una frase o di un accostamento di termini, o l’efficacia di una metafora. Ero tornata ad essere imbranata e impacciata, un intellettuale un po’ miope, e facilmente perdevo l’inquadratura generale, il senso della sinfonia intera. Non ero più capace di anticipare l’effetto che avrebbero avuto le mie parole. Ciò mi confermava che scrivere in italiano era l’unica difesa che avevo contro l’artificio, la menzogna, la distanza tra me e il lettore.

La traduzione mi riusciva bene ma non fluiva spontaneamente. Quando scrivo in italiano e trovo la parola giusta, provo una profonda sensazione di giustezza e di benessere, come quella provocata del clic di una tessera in un puzzle; a volte mi scappa una piccola risata! E non c’è più bisogno di toccarla. Invece nella traduzione inglese, ogni parola è frutto di un’analisi; rappresenta una decisione meditata, una soluzione trovata in base ai miei studi accademici e alle mie letture. Ogni frase la elaboravo, la rielaboravo; mi venivano molti dubbi, tornavo indietro a modificarla più volte. Eppure rimaneva l’incertezza se mi fossi espressa in maniera autentica. A volte mi sembrava che fosse l’imbarazzo della scelta a fregarmi: il mio cervello di madrelingua era un dizionario di sinonimi, i miei occhi di insegnante d’inglese e correttrice di bozze smantellavano ogni frase, vedendone l’infinità di possibilità grammaticali e sintattiche. Nemmeno una volta durante l’auto-traduzione mi è arrivata una frase bella e fatta: niente parole sussurrate, illuminazioni o intuizioni di alcun tipo.

Quali sono stati gli ostacoli più difficili da superare durante la traduzione? Differenze linguistiche, riferimenti culturali, resa di espressioni idiomatiche, ecc. Può fornire qualche esempio?

Appena ho capito come stavano le cose, l’ho presa con filosofia e la traduzione si è mostrata un esercizio stimolante, addirittura un gioco. Sono stati tre mesi divertenti; ogni mattina mi svegliavo felice di vedere quali nuovi ostacoli linguistici avrei affrontato quel giorno e quali soluzioni creative avrei escogitato per superarli. Inoltre, avevo l’enorme vantaggio di conoscere ogni intenzione dell’autrice e quindi di non dover mai chiedere spiegazioni.

La sfida più grande è stata quella di mantenere (o ricreare) la cosiddetta “freschezza” del linguaggio originale. In italiano non ho molti pregiudizi linguistici, il che mi permette di felicemente accostare, per esempio, un certo aggettivo a un certo sostantivo in un modo insolito. Mi riesce davvero difficile dare qualche esempio perché ogni accostamento a me sembra semplicemente normale, ogni regola linguistica infranta l’ho infranta inconsapevolmente – e non per sfoggio o un desiderio di ribellione bensì per necessità e un desiderio di precisione. Invece in inglese sono più rigida: grazie alla mia formazione so benissimo ciò che è “accettabile” e ciò che non lo è. Nell’auto-traduzione allora ero sempre conscia del rischio che, in nome della freschezza, avrei piegato il linguaggio in modo forzato e quindi perso la sincerità – il cuore – del romanzo. C’era ben poco da recuperare dal vecchio testo inglese, ma quando di tanto in tanto riuscivo a ripescare qualche frase che aveva un suo perché e una sua originalità, spesso intraducibile in italiano, ne ero contenta.

Il ritmo delle frasi non era difficile da tradurre ma la musica sì. È inevitabile, perché l’italiano, con le sue vocali aperte e la sua cadenza regolare, ha un suono completamente diverso dall’inglese. Tutte e due lingue, per fortuna, si prestano alle allitterazioni, e quindi ho potuto mantenere questo aspetto del mio stile anche nel testo inglese; tuttavia, nella traduzione aspettavo le occasioni giuste (dettate “naturalmente” dalla lingua) senza preoccuparmi di far combaciare le allitterazioni allo stesso punto preciso del testo.

Tra le cose più difficili da tradurre sono state le scene di sesso, e di intimità fisica in generale. Combattevo con la rozzezza dei termini che avevo a disposizione in inglese, mentre l’italiano permetteva una certa vaghezza poetica. Un esempio è proprio il termine “sesso” usato in una frase come “stringere il suo sesso”: l’inglese “grab his member” ha delle connotazioni infelici che rimandano a un film porno o, al meglio, un romanzo rosa (infatti ho optato per un’altra soluzione). Al contrario, in italiano si può parlare molto più apertamente di emozioni e di passioni, mentre farlo tanto esplicitamente in inglese può dare un’impressione di melodramma, di esagerazione, che allontana il lettore.

Una cosa che non è stata assolutamente possibile tradurre è il dialetto napoletano. Come si fa a rendere “cazzimma” o “zoccola” in italiano, né tantomeno in inglese? Il napoletano è una lingua viscerale, rabbiosa e ironica che perde non solo la sua ricchezza nella traduzione ma anche il suo più ampio contesto storico-culturale davanti al pubblico anglofono, che non conosce veri e propri dialetti. Nella traduzione ho aggiunto delle spiegazioni, ma ben inserite nella narrazione, per accennare al rapporto complesso che rende il napoletano sinonimo di ignoranza e astuzia, virilità e tenerezza, vecchio mondo e rinascita culturale. Però quasi tutte queste sfumature vanno perse nell’edizione inglese, una perdita che ho dovuto semplicemente accettare.

Questa sensazione di “perdita” ha caratterizzato il mio atteggiamento verso il testo inglese. Fino a poco tempo fa l’ho considerato un’ombra dell’originale, e soltanto negli ultimi mesi ho cominciato a vederlo come un romanzo a sé e, un poco alla volta, ad affezionarmici.

Che effetto/importanza ha avuto la sua esperienza in Italia, gli anni che ha vissuto a Napoli, sul processo di scrittura e su quello di traduzione? È stata una semplice fonte di ispirazione per la trama del romanzo o ha ricoperto anche un ruolo importante a livello linguistico?

Vivendo tra due continenti un po’ si impara a diventare interpreti simultanei. Ma la traduzione scritta è un’altra storia, cosa che in effetti mi veniva raramente richiesta quando abitavo a Napoli. Però l’interesse da parte mia c’era. Feci, per il corso di semiotica all’Orientale, una tesina sulla traduzione italiana di Lolita di Nabokov, analizzando in modo particolare (e in modo critico) come era stato affrontato il problema delle allitterazioni e concludendo che la poesia (la musica, appunto) dell’originale era andata persa.

Ero iscritta a lingue, eppure forse in tutti quegli anni trascorsi a Napoli non ero completamente consapevole della misura in cui la lingua era diventata il mio strumento preferito per esplorare e comprendere il mondo. Ascoltavo molto, non solo le parole ma anche l’intonazione, il tono di voce, i gesti che le accompagnavano. Cercavo di capire il vero senso delle cose che stava dietro alle parole, che però mi creavano a volte confusione e malintesi. Mi sentivo in fondo una straniera, un’osservatrice che guardava da fuori, un’intrusa che origliava.

Straniera sì, ma la realtà è che non riesco a separare la mia stessa identità dalle mie esperienze napoletane. Ho trascorso i miei anni formativi a Napoli e provincia. Il dialetto è l’unica lingua che non ho mai studiato, e quasi mai letto o scritto, ma è entrato nel mio sangue quasi in maniera preverbale come succede con i bambini. È una musica familiare che per me sa di adolescenza, delle prime paure, del primo amore; mi sa di verità. Ma come il napoletano sfugge alla standardizzazione, così anche Napoli sfugge alle parole. Così, alcuni anni dopo averla lasciata, mi è venuto il desiderio di cercare di catturarla con la scrittura.

Chi è secondo lei il traduttore letterario? Può essere considerato un “secondo autore” del testo?

Ho sempre voluto, nei limiti delle mie conoscenze linguistiche, leggere i romanzi in lingua originale, per cui sono abbastanza ignorante in materia di traduzione letteraria. Mi venne però il sospetto, tanti anni fa quando tentai di leggere Delitto e castigo in russo, che forse avessi amato quel romanzo non tanto per lo stile di Dostoevskij quanto per lo stile del suo talentuoso traduttore inglese, David Magarshack.

Personalmente credo che non si possa fare una bella traduzione letteraria se non si è in fondo scrittore. Credo che per tradurre bene bisogna avere sì capacità analitiche, rispetto e pignoleria, ma anche la flessibilità, creatività e intuito di un artista. Bisogna avere un feeling con la lingua. Le traduzioni troppo rigide si notano subito, stonano. Una bella traduzione, secondo me, deve suonare completamente naturale, e ci sono tanti esempi. In questi casi bisogna riconoscere maggiormente il ruolo del traduttore, anche se non sono convinta che si possa adoperare il termine “secondo autore.”

Ho avuto il privilegio di collaborare un poco con la traduttrice olandese di Perduti nei Quartieri Spagnoli, che aveva cominciato a tradurre il testo quando non era ancora definitivo. Spesso, nelle sue mail in cui cercava chiarimenti, mi faceva notare alcuni piccoli problemi nel testo che credo soltanto uno che ci lavora da molto molto vicino possa vedere. Le sue osservazioni sono state preziosissime per il testo italiano finale. Allora lei non è soltanto traduttrice e scrittrice ma anche correttrice di bozze e editor!

Cosa significa per lei “traduzione perfetta”? È possibile ottenerla in campo letterario?

Non esiste la perfezione nell’arte, e la traduzione deve essere considerata tale.

Conosce altri autori che hanno tradotto le proprie opere? Le sono stati di ispirazione?

Il fatto che Nabokov abbia tradotto Lolita in russo l’ho scoperto da poco, quindi il caso è stato per me più una questione di curiosità che di ispirazione. Poiché la traduzione è avvenuta ad alcuni anni di distanza dalla pubblicazione dell’originale inglese, lui non ha resistito alla tentazione di metterci di nuovo mano, a modificare alcuni brani. Inoltre, c’era un divario culturale che Nabokov ha voluto colmare per i lettori, e si è lamentato della minore elasticità linguistica del russo. Era spesso scontento della propria traduzione e rimpiangeva, se ricordo bene, il fatto di aver perso molte delle allitterazioni che rendono unica Lolita – quella poesia, appunto, che era venuta a mancare nella traduzione italiana.

Che rapporto c’è tra bilinguismo e auto-traduzione? È possibile trovare dei parallelismi tra questi due fenomeni?

Sicuramente. Sarebbe impossibile auto-tradursi senza conoscere intimamente (anche se imperfettamente) entrambe le lingue. Però, ripeto, la capacità di parlare una lingua non equivale a una capacità nella scrittura.

Debora Carlacchiani

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