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Intervista a Tegamini [a cura di Rosangela Amato]

Scrivo delle cose, propago entusiasmi, pettino unicorni e compilo wishlist. Ho un Amore del Cuore, un Minicuore, un gatto gigante e un sacco di libri. Sono brava a ordinare al ristorante.

L’avete riconosciuta? Sì, è la mini biografia di Francesca Crescentini, in arte Tegamini, che ci ha gentilmente concesso un po’ del suo tempo fra una traduzione e l’altra.

Eh sì, perché oltre a essere una content creator, Francesca è anche un’abile e appassionata traduttrice. E chi siamo noi per non cogliere l’occasione di farle qualche domanda?

Specializzatasi in Economics for Arts, Culture, Media and Entertainment all’università Bocconi, si trasferisce a New York per lavorare in un’agenzia di pubbliche relazioni. Successivamente si trasferisce a Torino, dove lavora al marketing Einaudi. Nel 2010 fonda Tegamini e nel 2012 si sposta a Milano dove inizierà poi a lavorare come copy in un’agenzia digital.

È nel luglio del 2017 che decide di diventare una traduttrice e blogger a tempo pieno…

R: Come ti sei approcciata al mestiere di traduttrice un po’ lo sappiamo, ma come approcci invece a una traduzione? Qual è il tuo metodo? Sei della squadra leggo prima tutto il testo e poi traduco oppure inizi a tradurre di getto?

T: Leggo tutto.

In realtà leggo già qualcosa quando devo decidere se accettare o meno il lavoro. La lettura preliminare serve a vedere com’è il testo, come marcia o se ci sono fregature successive. Mi sento più tranquilla e procedo in maniera più razionale se leggo tutto prima.

È vero, forse è un pochino più noioso – andare avanti al buio può essere più avvincente. È una cosa che mi concedo quando mi occupo di libri seriali per ragazzi, in cui so già che non ci saranno particolari sorprese e ho già ben presente qual è l’universo, qual è il contesto perché magari è il quarto o il settimo libro della serie su cui lavoro. Però se affronto qualcosa di completamente alieno preferisco leggere tutto prima, perché ci sono tantissime cose che all’inizio non puoi conoscere, ma che procedendo possono rivelarsi fondamentali. È un pochino come avere la lucina dell’allarme che si accende quando vedi qualcosa che poi dovrai comunque portare avanti in modo coerente. Ci saranno sicuramente pezzi che avranno bisogno di più attenzione di altri, termini che magari ti devi inventare, che devi ricordare; quindi quello sì, mi rassicura di più leggere tutto all’inizio e poi procedere con la traduzione, anche a costo di annoiarmi un po’ perché so già cosa succede. ?

R: Come ti organizzi? Fai una tabella di marcia che cerchi di rispettare?

T: Di solito guardo com’è strutturato il testo e vedo come sono conciata io a livello di ritmo.  Faccio una settimana “di rodaggio”, insomma. All’inizio sono molto più lenta, ma penso che sia anche abbastanza normale: bisogna farci l’orecchio. E io ci metto un po’ a ingranare. Parto concedendomi qualche giorno per prendere le misure e, una volta capito qual è più o meno il mio ritmo cerco di stabilire, anche in base alla scadenza, quante pagine al giorno dovrei sfornare per arrivare più o meno comoda e tenermi soprattutto un po’ di tempo alla fine per riguardarlo. Non sono il tipo che finisce, mette giù la penna e via, spara il file all’editor dicendo: “ma sì, tanto poi me lo revisionano”. Io zero, sono mega rognosa. Il tentativo è sempre quello di consegnare un lavoro che per me sarebbe già stampabile. Insomma, faccio tanto lavoro alla fine di rilettura, sistemazione, aggiustamenti. La fase di auto-revisione prima della consegna per me è fondamentale.

R: Ti capisco, soprattutto quando parli di leggere e rileggere prima di consegnare. Colgo la palla al balzo per chiederti qual è il tuo rapporto con il tuo revisore. Ti è mai capitato di essere in disaccordo con delle modifiche apportate alla tua traduzione?

T: Dipende tantissimo dal revisore. Diciamo che da traduttori si tende a essere molto protettivi con quello che si fa, ma è anche normale secondo me, perché abbiamo passato un tempo molto lungo insieme al testo, ci siamo fatti molte domande, abbiamo riflettuto per un tempo che fisiologicamente è più esteso, forse più profondo e anche un pochino più ossessivo nei confronti del libro. Anche a livello di come rendere la voce, il ritmo dell’autore, il traduttore è sicuramente avvantaggiato perché ha passato molto più tempo con quella voce lì, l’ha vista in azione per cui è anche più facile per il traduttore spiegare perché ha fatto determinate scelte.

Il revisore prende in mano una cosa e la legge con una distanza maggiore – il che è prezioso perché è quella distanza che aiuta anche a individuare quello che non funziona. Spesso qualcosa ci “suona” perché ci siamo abituati a leggerlo così, ma potrebbe esserci una soluzione migliore che non riusciamo a vedere perché per noi il testo si è “solidificato” in un certo modo.

Quando consegno compilo sempre la “lista della spesa” – chiamiamola così. Ci sono dei punti critici o delle cose che ho risolto prendendo delle decisioni perché bisognava prendere delle decisioni, come capita spessissimo, e io cerco di spiegare tutto in modo preciso e chiaro, così da rendere il revisore subito partecipe del processo quando prende in mano il libro.

Ci sono revisori – così come traduttori e come chi scrive – più o meno sensibili, più o meno interventisti di altri. Io sono sempre stata fortunata finora, perché la sensazione che ho avuto alla fine è che il testo avesse beneficiato della revisione. In genere tendono a “toccarmeli” poco. Io magari sono un po’ sciatta con trattini e virgolette, ma a livello di frasi è rarissimo che mi ritrovi con dei pezzi riscritti. Mi pare un bene, vuol dire che il revisore si è potuto concentrare davvero sul far scorrere bene il testo o sul controllo ulteriore di snodi problematici, perché non servivano interventoni strutturali, del tipo: questa cosa è illeggibile, la devo riscrivere da cima a fondo. Gli si lascia più tempo può dire: bene, vado a controllare questo riferimento, vado a vedere se questa cosa potrebbe essere detta meglio, rifletto un po’ di più su come abbiamo cercato di rendere questo modo di dire.

Quando mi “torna” una revisione succedono anche un sacco di chiacchiere a margine. Ci si scambiano commenti e si condividono spunti per affinare le soluzioni o rimediare a possibili errori. Se rifiuto una cosa – e può capitare – ti dico perché la sto rifiutando e da dove veniva la mia scelta iniziale. Bisogna aiutarsi a vicenda, è un lavorare insieme e se fatto bene è molto, molto prezioso.

R: Hai mai fatto tu da revisora?

T: No, non mi è ancora mai capitato, e mi sta bene così! J

R: C’è un libro che hai dovuto tradurre che proprio non ti è piaciuto? Hai dei consigli per chi si trova in una situazione del genere? Qual è invece il libro che hai tradotto che ti è piaciuto di più o al quale sei particolarmente affezionata?

T: Sì, ce ne sono che non mi sono piaciuti [ride].

Diciamo che c’è una certa differenza rispetto all’impostazione del mio lavoro su Instagram, ad esempio.  Lì quello che racconto e quello di cui mi occupo devono effettivamente corrispondere a quello che amo e a come sono… quando traduco, tutto sommato, se un libro non è un bel libro non è colpa mia e questa cosa mi infonde un vastissimo sollievo [ride]. È ovvio che sei più felice se trovi dei libri che ti somigliano perché ci lavori più volentieri, è più facile anche da fare. Almeno, a me risulta più facile tradurre un libro è scritto bene o che mi cattura a livello tematico. Però pazienza, è lavoro e non si può sempre scegliere. Soprattutto all’inizio si prende anche un po’ quello che arriva. Non farò nomi, ma nella mia mente sono riecheggiati numerosi “ma perché questo libro deve uscire in Italia, non ci serve!” … e pace, ogni tanto succede. Quando mi trovo in una situazione del genere la prendo come un esercizio di enigmistica. Faccio il mio dovere. Bisogna metterci tutta la professionalità del caso anche se non disponiamo di un materiale eccelso o che non risponde ai nostri personalissimi gusti di lettore.

Ci sono anche dei libri che non mi è piaciuto tradurre – perché erano particolarmente impervi -, ma che restano libri stupendi. Un esempio è Gli Argonauti di Maggie Nelson. È difficilissimo, lei è super intricata a livello lessical-concettuale e il tema ha richiesto ricerca e precisione. Non è stato un compito “piacevole”, ma sono molto felice di essere arrivata onorevolmente in fondo, perché la storia che racconta è importantissima. Ho patito, ma mi viene da dire: che bello, sono fiera di averci lavorato. Una cosa simile l’ho provata per Joyce Carol Oates, con tremarella da confronto con un’autrice-monumento.

Parlando delle esperienze “felici”, forse il libro più spassoso a cui ho lavorato – e che amo anche da lettrice – è Breve storia dell’ubriachezza di Mark Forsyth, edito sempre da Il Saggiatore. Sono andata via liscia anche se qua è là mi è toccato tradurre anche filastrocche sumere. Insomma c’erano delle difficoltà, ma è stato veramente un lavoro godibilissimo. Poi usciranno quest’autunno per Mondadori due cose che mi rendono molto felice. Di un autore ero già fan e potermene occupare è stato un privilegio, dell’altra autrice sono diventata super fan.

R: Un Librini Tegamini sulla traduzione da consigliare a chi sta scrivendo la tesi o ne vuole sapere di più?

T: Un libro che a me ha divertito molto e mi ha anche fatto estremamente pensare è sicuramente I ferri del mestiere di Fruttero & Lucentini che è un po’ un classico, diciamo, e dà anche un’idea un pochino più ampia del lavoro editoriale e del lavoro sul testo in generale.

R: Di solito sei tu che proponi un libro da tradurre a una CE o sono loro che lo propongono a te?
Nel primo caso, hai qualche consiglio per strutturare una buona proposta di traduzione?

T: No, non è mai capitato di essere io a proporre un libro a un editore, sono sempre stata molto fortunata e ho sempre lavorato in base agli stimoli che di tanto in tanto arrivano. :3

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