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Traduttori del passato: Giuseppa Barbapiccola, la bella cartesiana di Napoli

[A cura di Barbara Barnini]

Tutta la filosofia è come un albero, le cui radici sono la metafisica, il tronco è la fisica, e i rami che escono dal tronco sono tutte le altre scienze, che si riducono a tre principali, e cioè la medicina, la meccanica e la morale, intendo la più alta e la più perfetta morale che, presupponendo una conoscenza intera delle altre scienze, è l’ultimo grado della saggezza.

(estratto della lettera all’abate Claude Picot)

In questa lettera indirizzata all’abate Claude Picot, autore della versione francese dei Principia philosophiae (Les Principes de la philosophie) e posta come prefazione alla prima edizione, Cartesio si avvale della metafora dell’albero della conoscenza per offrire un’immagine concreta del suo pensiero basato sul lume naturale della ragione, intesa come discernimento e criterio di giudizio e di valutazione della verità, e per presentare la filosofia come il fondamento della conoscenza umana.

I Principia philosophiae è un trattato di metafisica e di filosofia naturale pubblicato nel 1644 in latino e nel 1647 in francese,  costituisce la sintesi del Discorso sul metodo (Discours de la méthode) apparso anonimamente nel 1637 e le Meditazioni metafisiche del 1641 scritte in latino con il titolo Meditationes de prima philosophia, ed è dedicato a Elisabetta di Boemia, Principessa Palatina, che intrattenne una fitta corrispondenza epistolare con il filosofo francese durata fino alla morte di questi nel 1650. La prima delle quattro parti che compongono il trattato è fondamentale per comprendere il nucleo essenziale del pensiero cartesiano: l’applicazione sistematica del dubbio, della messa in discussione delle idee maturate a contatto con la realtà imperfetta delle cose quale via verso la conoscenza e la verità. 

Nel 1722 uscì la traduzione in italiano dell’opera di Cartesio con il titolo: Principi della filosofia di Renato Des-cartes. Tradotti dal francese col confronto del latino in cui l’autore gli scrisse da Giuseppa Eleonora Barbapiccola tra gli Arcadi Mirista.

Pubblicato forse a Torino da Giovan Francesco Mairesse, sembra più probabile che fosse uno dei tanti libri stampati a Napoli sotto falso imprimatur tra la fine del Seicento e il Settecento e circolanti semiclandestinamente all’interno della città, ipotesi sostenuta dal ritratto della traduttrice inciso dall’artista napoletano Francesco de Grado che compare a piena pagina sul verso del frontespizio.   

Le notizie biografiche su Giuseppa sono lacunose e poco è conosciuto della sua formazione giovanile. Nacque probabilmente intorno al 1702 a Napoli in una famiglia originaria di Salerno e morì nel 1740 circa. Suo zio era il predicatore domenicano e studioso di storia Tommaso Maria Alfani, autore dell’Istoria degli anni santi del 1725, che entrò in corrispondenza con illustri letterati del suo tempo, fra cui il filosofo Giambattista Vico e nel 1716 collaborò al Giornale de’ letterati d’Italia curato da Apostolo Zeno.

Fu quasi sicuramente lo zio a promuovere la sua educazione filosofica, introducendola nei salotti letterari napoletani e nel circolo riunitosi intorno a Vico, e nella casa di Vico, Giuseppa strinse una duratura amicizia e collaborazione con la figlia maggiore, Luisa, alla quale dedicò un sonetto e con la quale comporrà e pubblicherà le sue poesie. 

Giuseppa fece parte dell’Accademia degli Arcadi, una corrente letteraria sorta a Roma nel 1690 come reazione allo stile ampolloso della poesia barocca e ispirata alla tradizione della poesia greca pastorale dell’Arcadia, regione storica della Grecia dove secondo il mito questa poesia era nata. L’Accademia fu patrocinata dalla regina di Svezia Maria Cristina che, dopo la conversione al cattolicesimo, fu costretta ad abdicare e a lasciare la Svezia e, una volta stabilitasi a Roma, si dedicò a opere filantropiche e promosse la cultura in vari modi, gettando così le basi alla formazione dell’Accademia.

Per sottolineare il profondo rapporto che li univa alla poesia bucolica, i membri dell’Accademia erano soliti attribuirsi soprannomi grecizzanti, e Giuseppa scelse di farsi chiamare Mirista Acmena che in greco significa ricca di fragranza e che appare accanto al suo nome nel titolo della traduzione. 

La traduzione italiana dell’opera di Cartesio merita un’attenzione particolare in quanto si inquadra in una prospettiva molto più ampia della realtà italiana in cui vide la luce, profilandosi come il risultato di un’epoca di fervido entusiasmo per la ricerca scientifica, la passione per il sapere e la conoscenza derivata dalla ragione all’interno di un dibattito intellettuale che nell’Europa settecentesca era dominato dagli uomini.

Giuseppa non si limitò solo a divulgare il cartesianesimo in Italia, ma si fece portavoce del diritto delle donne all’istruzione, allo studio della scienza e della filosofia, predisponendo quindi a una ricezione diversa di Cartesio e del suo pensiero. Nella prefazione rivolta ai lettori, contrappose agli argomenti sull’inferiorità intellettuale delle donne degli esempi concreti di figure femminili colte che, nel corso della storia, avevano promosso le scienze, le lettere e le arti, presentando Cartesio come il creatore di una filosofia che celebrava l’intelletto femminile:

Ma se si guarda attentamente e chiaramente, le donne non dovrebbero essere escluse dallo studio della scienza, perché sono di spirito più elevato e non sono inferiori agli uomini riguardo alle più grandi virtù. (dalla prefazione alla traduzione dei Principi della filosofia)

La traduttrice non lascia spazio a dubbi su chi fosse il destinatario dell’opera, le donne della sua epoca, che ne avrebbero beneficiato per riscattarsi dal ruolo tradizionale a cui l’ambito familiare e sociale le aveva relegate e da un’educazione tipicamente femminile basata solo sulla lettura di testi religiosi, sull’apprendimento delle buone maniere e sui lavori domestici, e alle quali andava riconosciuta  l’autorità intellettuale. 

Giuseppa riuscì a guadagnarsi il rispetto dei circoli eruditi napoletani, affermandosi in un ambito considerato di esclusiva competenza maschile, e con il suo esempio aprì alle donne del suo tempo una via nuova, la via dell’indagine intellettuale della filosofia cartesiana.

Paragonata alla filosofa greca Aspasia da Gherardo De Angelis, che le dedicò un sonetto contenuto nella sua raccolta di versi giovanili Rime (1730), Giuseppa aggiunse un altro splendore al grande René Descartes.

Fonti:

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