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Lusofoniamo: “O retorno”, Dulce Maria Cardoso

Una partenza può avere una connotazione per lo più positiva: si parte per staccare dalla routine, per riposarsi o per lavoro – accezione meno entusiasmante ma sempre meglio un viaggio che stare seduti dietro una scrivania.
E se invece fossimo costretti, in quattro e quattro otto, ad abbandonare la nostra casa e il nostro presente per auspicare a una vita migliore, lontano da conflitti dettati da politiche intransigenti? Forse l’istantanea sensazione di privazione, mista a impotenza, lacererebbe per sempre il nostro io con ferite difficili da rimarginare. Quindi mi chiedo, saremmo in grado di rialzarci dopo questo salto, imposto, nel vuoto?
Rui, il protagonista quindicenne del romanzo, direi autobiografico, O retorno di Dulce Maria Cardoso, ci racconta proprio questo genere di storia: la perdita e la dolorosa reintegrazione prima di recuperare le redini della propria vita.
Lui nasce e vive a Luanda, in Angola, da quando i genitori vi emigrarono, approfittando dei disegni dittatoriali volti a canalizzare l’emigrazione portoghese verso le “province d’oltremare”. Al tempo, il desiderio salazarista di svilupparvi grandi infrastrutture e investimenti combaciava con la politica di preservazione del “Portogallo uno e indivisibile” del successore Marcelo Caetano. Nonostante ciò, la pacifica Rivoluzione dei garofani del 1974 spodestò i due governi. Il Portogallo riconobbe, nello stesso anno, l’indipendenza della Guinea Bissau, Capo Verde, São Tomé e il Mozambico, ma per l’Angola il processo si rivelò ben più lento e complesso.
A seguito del perpetuarsi delle rivolte indipendentistiche, Rui, come altri circa cinquecentomila retornados, è costretto a lasciare “la sua Angola” e ridurre la propria esistenza a pochi effetti personali. È letteralmente sradicato dalla sua terra, forzato a “ritornare” nella métropole – mito della storica madrepatria portoghese –, paese a lui sconosciuto, o meglio straniero.
È una domenica pomeriggio del ’75, il giorno della forzata partenza, quando Mário, il padre del protagonista, viene violentemente prelevato dai negros e arrestato con l’accusa di essere o conoscere il macellaio di Grafanil. Rui, insieme alla madre Glória – con i suoi demoni interiori – e sua sorella Milucha partono a malincuore per raggiungere, grazie al ponte aereo organizzato, l’alloggio assegnatogli nella nota città costiera di Estoril. Qui divengono desalojados a tutti gli effetti. Non sono villeggianti, ma ospiti indesiderati di un albergo a cinque stelle, la cui direttrice riserva loro un trattamento da selvaggi ignoranti
le buone maniere. La scuola offre ai retornados la medesima accoglienza intollerante: i professori li recludono agli ultimi banchi, non li chiamano per nome e li considerano degli stupidi. Rui non accetta questa etichetta di “ritornato nella madrepatria”. Non si sente figlio di questo paese, da sempre descritto come un fiorente impero dal Minho a Timor, ma invece i suoi occhi lo vedono piccolo, sporco e inospitale proprio come il suo gelido clima invernale o la sua graffiante calura estiva.
Una madre non tradisce o inganna la propria prole, non impone loro una nuova identità ed è per questo che Rui vuole tornare nella sua florida terra, al gentile tepore di Luanda, alla “vita prima degli spari” con la famiglia, la cagnetta Pirata e gli amici.
Il romanzo si fa quindi riflessione letteraria e viaggio che oltrepassa la finzione perché la stessa Dulce Maria Cardoso è stata una retornada. Nasce nel 1964 a Trás-os- Montes, ma durante la sua infanzia si trasferisce con i genitori in Angola per poi tornare nel 1975 in Portogallo, a seguito dell’indipendenza ottenuta dalle province ultramarine. L’autrice diventa interprete della recente storia coloniale lusitana e portavoce di più di mezzo milione di uomini e donne, obbligati a fuggire nella vana speranza che ciò che era ed erano stati, un giorno tornerà a essere.
Come afferma Francisco de Almeida Dias nell’articolo “Portugal è mátria” della Gazeta de Beira del 28 giugno 2022, O retorno non vuole imporsi come un tribunale della Storia ma come l’esplicitazione di una fase di lutto mancata al popolo portoghese. Dulce Maria Cardoso non riduce la fine della colonizzazione in Africa a un mero giudizio dicotomico tra bene e male, tra dominatori e dominati, ma, attraverso la voce di Rui condivide la sua memoria di bambina, costretta a tornare da straniera nel “suo” paese.

“È stato strano mettere piede in madrepatria, sembrava di entrare nella cartina appesa in classe.”

(Il ritorno, traduzione di Daniele Petruccioli, Voland, 2013)

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