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La traduzione come lingua-cultura e la scelta terminologica: il caso di “taide” [a cura di Sergio Piscopo]

Il ruolo del traduttore viene sovente inteso (e frainteso) come semplice intermediario fra una lingua-cultura A ed una lingua-cultura B. Nel processo traduttivo, malgrado ciò, non viene unicamente inclusa la transcodifica del testo fonte verso il testo d’arrivo, come se si trattasse di un mero lavoro meccanico, bensì viene sempre inclusa la cultura della lingua fonte, con tutti i significati connotativi che ne derivano. A proposito di questo aspetto, lo studioso Henri Meschonnic (Propositions pour une poétique de la traduction, 1972) parlava proprio di tale dualità, intesa come eterogeneità traduttiva, mettendo in evidenza ciò che la lingua A e la lingua B rappresentano in termini di senso: lingua-cultura-storia A e lingua-cultura-storia B.

Dunque, il traduttore svolge un compito assai complesso, in quanto si presta a tradurre non solo il mero codice linguistico, ma anche la relativa cultura, con tutti i problemi ad essa correlati. Molti problemi rimandano ad una dimensione ben precisa del processo traduttivo, ad esempio la scelta terminologica. Ponendosi dal punto di vista del traduttore, che svolge il suo lavoro di “artigiano del testo”, e prendendo in esame la traduzione del romanzo di Anatole France Taide, di cui si rimanda all’articolo presente nella sezione “Classici da amare #2: “Taide”, di Anatole France”, il primo passo, dopo la lettura e l’analisi testuale, è stato quello di focalizzare l’attenzione sul linguaggio usato dall’autore (se più o meno elaborato, se presenta la natura di un linguaggio aulico, quotidiano o trascurato), sui termini (se più o meno ricercati o riguardanti un contesto ben circoscritto), sullo stile della lingua dello scrittore e sulle varie strutture morfosintattiche che compongono l’ossatura del romanzo (predominanza di ipotassi, paratassi o di entrambi, stile ampolloso o più scorrevole).

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Trattandosi di un romanzo storico, la ricerca di una terminologia appropriata, specificatamente al contesto del tempo della storia, è stata quantomeno accurata, in virtù del fatto che la maggior parte dei personaggi, dei luoghi presentati e degli eventi narrati dall’autore è realmente esistita. Ebbene, la traduzione di tali elementi testuali non poteva escludere la veridicità storica. Se si fosse trattato di un lavoro di fantasia, con luoghi e personaggi inventati, con tipicità proprie all’estro dello scrittore, la traduzione si sarebbe orientata verso un’altra meta, cercando di addomesticare il romanzo alla realtà del testo tradotto, apportando talora anche modifiche importanti, e cercando di limitare le perdite di contenuto. Eppure, la traduzione non è una scienza esatta. Pertanto, durante la transcodifica fra i due codici linguistici, bisogna perentoriamente tenere conto della perdita di contenuto, che può tradursi, ad esempio, in giochi o espedienti linguistici profondamente radicati nella cultura del testo fonte (il Jabberwocky di Carroll ne è un chiaro esempio), e diversamente connotati nella lingua d’arrivo, i quali richiedono, anziché un lavoro di traduzione tout courtuna traduzione a sensotalora una vera e propria riscrittura. In questo caso, il traduttore non può svolgere meramente il compito di “tecnico del testo”, ma deve essere uno scrittore a tutti gli effetti, senza mai sostituirsi all’autore, altrimenti il lavoro risulterebbe solo una ibridazione di stili e di intenti.

Ritornando a Taide, un caso particolare ha riguardato la scelta traduttiva del termine aulos, ovvero uno strumento musicale appartenente alla famiglia degli aerofoni, usato nell’Antica Grecia. Il testo francese usa semplicemente il termine flûte (flauto). La traduzione ha quindi tenuto conto di una dimensione storica più pertinente al contesto delle vicende narrate, visto che l’azione si svolge in un mondo fortemente ellenizzato, seppur al suo fatale declino. Il termine d’uso corrente flauto non è stata valutata come una scelta abbastanza attinente. Si potrebbe trattare di un azzardo traduttivo, magari anche anacronistico, ma senz’altro più fedele alla storia. Ovviamente, anche il semplice flautista è stato tradotto col suo equivalente (auleta), andando così a modificare tutto il complesso lessicale relativo al termine, poiché una scelta traduttiva deve essere accuratamente studiata, valutata e mantenuta nel tessuto della trama. Caso contrario, se le due coppie di termini tradotti (aulosauleta) si fossero alternate nel testo all’altra coppia di termini correnti (flautoflautista), questo avrebbe generato confusione nel lettore.

Il traduttore, quindi, deve porsi un interrogativo fondamentale: bisogna servire l’autore, il lettore o entrambi? Ovvero, essere fedeli all’autore o al lettore? Per quanto la retorica di tale quesito possa risultare scontata o banale, ogni buon traduttore non deve sottovalutare questi intenti. Egli si trova a dover confezionare un prodotto che sarà pensato e venduto seguendo proprio la retorica posta in essere da ogni traduttore prima ancora di immergersi nel testo. Tale scuola di pensiero, non unanimemente condivisa, forse si sposa troppo con la filosofia e si rivolge principalmente alla traduzione letteraria (i problemi relativi alla traduzione specialistica saranno qui tralasciati). Tuttavia, un traduttore che non tenga in considerazione questi aspetti, può trovarsi dinanzi a un altro interrogativo, più spietato e cavilloso: può la mia traduzione divenire un buon prodotto? Ovvero, al di là di fini pretenziosamente remunerativi, quale sarà la mia etica nei confronti di questo testo? In definitiva, chiudendo il cerchio, dovrò preoccuparmi del mio tornaconto o dovrò servire due “padroni”?

Sergio Piscopo

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