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Intervista a Giulia Ciarapica [a cura di Francesca Felici]

Giulia Ciarapica, classe 1989, laureata in Filologia moderna all’Università degli Studi di Macerata, è blogger culturale, collaboratrice de Il Foglio e Il Messaggero. Nel 2018 ha pubblicato con Cesati Editore il saggio “Book blogger. Scrivere di libri in Rete: come, dove, perché”. Nel 2019 esordisce nella narrativa con “Una volta è abbastanza”, primo volume di una trilogia edita Rizzoli.

Tiene laboratori di Book blogging per ragazzi e corsi di scrittura giornalistica per adulti. Cura la rassegna stampa culturale “Fuoridipagina” su Radio Cusano TV Italia.

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Come hai capito che essere book blogger, parlare e scrivere di libri, promuovere la lettura e la cultura, era diventato il tuo lavoro?

Ho capito che parlare e scrivere unicamente di libri, promuovendo così la lettura e la cultura, era diventato il mio lavoro dopo un paio d’anni che ero book blogger. Precisamente quando le case editrici hanno cominciato a inviarmi e propormi i loro testi da recensire, quando ho cominciato a poter inserire pubblicità sul blog perché aveva delle buone visualizzazioni, e poi quando il blog è diventato un vero e proprio trampolino di lancio che mi ha consentito di far conoscere la mia preparazione, la mia passione per ciò che facevo.

Sono arrivate le prime proposte dalle case editrici, nel caso di Cesati per realizzare il libretto “Book blogger. Scrivere di libri in Rete: come, dove, perché”. E poi anche le proposte di collaborazioni dai quotidiani nazionali.

E’ un mondo in cui, se persegui con sacrificio e passione degli obiettivi, raccogli comunque i frutti non solo in termini di visibilità ma anche di riscontro materiale attraverso la pubblicità e i clienti che, per esempio, gravitano attorno al mondo dei libri e che promuovono oggettistica sui contenuti di libri. La casa editrice non ti paga per recensire un libro, come è giusto che sia se sei un book blogger che lavora in maniera onesta. I libri che si ricevono dalle case editrici sono contemporaneamente il materiale di lavoro e il compenso. Questo è un mondo diverso da quello del giornalismo, in cui il giornale ti paga per scrivere.

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Quando è cominciata la passione per la parola scritta?

La passione per la parola scritta, invece, è arrivata molto presto prima della passione per la lettura vera e propria. Mi sono appassionata fin da subito alle lettere avendo una madre che è una lettrice fortissima, laureata in filologia germanica,  con una biblioteca abbastanza fornita. L’incontro con la scrittura è arrivato quando avevo cinque anni dopo una visita alla casa di Leopardi, mio conterraneo: tornata a casa, ho voluto che mia madre mi leggesse tutte le poesie che in qualche modo avrei potuto un po’ comprendere a cinque anni.  Poi è stata la volta delle poesie di Rilke.  Quando andavo alle elementari scrivevo poesie, devo riconoscere anche discrete: quindi la passione per la parola scritta è nata immediatamente. Mi piaceva anche giocare con i colori in associazione alle parole, una passione folgorante che ho po’ perso negli anni delle medie per riacquistarla al liceo classico. Al secondo anno, in quinta ginnasio, ho cominciato a leggere i testi duri e puri della grande narrativa italiana del 900 e da lì ho capito davvero che quella era la mia strada. Il libro che mi ha folgorato in questo senso è stato l’Isola di Arturo di Elsa Morante a cui sono arrivata dopo una lettura altrettanto folgorante,  Gli Indifferenti di Moravia.

E come è avvenuto il passaggio da book blogger e critica letteraria a scrittrice?

Non te lo so spiegare in maniera lineare perché non c’è stato un passaggio da book blogger a critica letteraria e scrittrice, in realtà si tratta di un processo in divenire. Sono una book blogger perché mi occupo di libri in rete e voglio mantenere questo profilo. Ma mi sto specializzando per diventare una critica letteraria di buona qualità: è un percorso lungo perché la formazione è complessa, anche se sto già esercitando la funzione di critica letteraria grazie al Foglio che mi ha dato questa possibilità nella rubrica La Fogliata. Per quanto riguarda l’essere scrittrice, beh devo ringraziare le case editrici, cioè rispettivamente Cesati e Rizzoli, che hanno creduto nella mia penna e hanno investito, e continuano a farlo, su di me. E’ un tutt’uno, non ci si ferma mai. Fondamentalmente, quindi, non mi considero né solo una book blogger, né mi considero ancora una critica letteraria perché il percorso è davvero molto complicato, sono un’aspirante tale. E mi considero un’autrice perché mi piace lavorare con i libri a 360 gradi. Quindi, in realtà, il mio è un percorso completamente in divenire.

Secondo te, per quanto riguarda l’italiano, esiste una differenza tra la lingua delle traduzioni e la lingua delle opere scritte in italiano?

Mi dispiace sempre quando vedo che nelle copertine delle opere tradotte non troneggi mai accanto all’autore il nome del traduttore, perché io penso che il traduttore non sia semplicemente qualcuno che veicola un contenuto da una lingua all’altra: ha un compito ancora più oneroso, è proprio un creatore, che è molto di più che un traghettatore, e per questo deve essere gratificato nel modo giusto. Ovviamente leggere le opere in lingua originale e in traduzione, in qualsiasi lingua, non è mai la stessa cosa. Ci sono delle sfumature di senso per le quali occorrerebbe entrare nella mente dello scrittore per poterle rendere. Tra l’altro ci sono dei termini, come la “Sehnsucht”, che non riescono a essere resi bene in italiano, com’è anche il caso della resa in altre lingue della “noia” leopardiana che non è noia, e neanche tedio, ma qualcosa di più profondo. Quindi sì, credo che nel tradurre si faccia un lavoro doppio perché ci si deve mettere nella mente dell’autore. E questo vale per tutte le lingue.

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Saramago diceva che gli scrittori fanno la letteratura nazionale e che i traduttori fanno la letteratura mondiale. Cosa pensi che una traduzione possa apportare, oppure togliere a un testo?

Sono abbastanza d’accordo con Saramago anche riagganciandomi a quello che dicevo prima. La traduzione può apportare delle sfumature di senso che magari non si erano colte e, allo stesso tempo, può togliere sensazioni, suggestioni e pensieri che l’autore voleva trasmettere e che magari il traduttore non coglie. Quindi, secondo me, c’è un dare-avere continuo: può succedere di togliere da una parte e di aggiungere dall’altra, un arricchimento e una mancanza che vanno di pari passo. Non c’è però, secondo, me una visione totalmente univoca sulla questione traduzione e ribadisco, perché ne sono fermamente convinta, che il traduttore faccia una grandissima opera al pari dello scrittore.

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