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Traduttori del passato: Cesare Pavese e la nascita del mito americano  

[A cura di Barbara Barnini]

L’importanza dell’attività di Cesare Pavese (Santo Stefano Belbo 1908 – Torino 1950) come traduttore dall’inglese consiste nell’aver fatto conoscere, insieme a Elio Vittorini e a Fernanda Pivano, la letteratura americana in Italia. Nel panorama culturale italiano dell’epoca, dominato dall’ideologia autarchica fascista, gli scrittori americani incarnavano quegli ideali di libertà e di modernità, e non per ultimo il senso avventuroso della vita, che fecero sognare quei letterati in rottura con la tradizione accademica nazionale e in cerca di punti di riferimento nuovi:

Verso il 1930, quando il fascismo cominciava a essere la “speranza del mondo”, accadde ad alcuni giovani italiani di scoprire nei suoi libri l’America, un’America pensosa e barbarica, felice e rissosa, dissoluta, feconda, greve di tutto il passato del mondo, e insieme giovane, innocente. Per qualche anno questi giovani lessero, tradussero e scrissero con una gioia di scoperta e di rivolta che indignò la cultura ufficiale, ma il successo fu tanto che costrinse il regime a tollerare, per salvare la faccia… (da: La letteratura americana e altri saggi di C. Pavese, Einaudi)

Era nato il mito americano.

Pavese iniziò il suo apprendistato come traduttore di poesia negli anni del liceo, traducendo le odi oraziane con una resa fedele e originale al tempo stesso, e poesia dal francese e dal tedesco. La traduzione dal greco ebbe inizio nel periodo di confino in Calabria al quale fu condannato dal regime fascista.

Durante il periodo universitario iniziò a interessarsi di lingua inglese e di letteratura americana, e si entusiasmò alla lettura di Sherwood Anderson, Sinclair Lewis e soprattutto Walt Whitman sul quale nel 1930 scrisse la tesi di laurea. In una lettera del 1929 al musicista italo-americano Antonio Chiuminatto, conosciuto a Torino, scrisse:

Penso che Lei ricordi con quanta passione l’anno scorso io ammirassi e studiassi le cose d’America, e questa passione è andata crescendo. Lei sa pure che qui in Italia è quasi impossibile trovare qualsiasi cosa d’americano si cerchi […] Sono a malapena riuscito a trovare qualcosa di cui avevo bisogno per la mia tesi di laurea su Walt Whitman. (Lei non sa, sarò il primo italiano a parlare di lui distesamente e criticamente. Mi perdoni, quasi sarò io a rivelarlo all’Italia!)

Scrivere su Whitman, il grande poeta americano della libertà, era ritenuto un oltraggio per l’epoca fascista che respingeva qualsiasi novità proveniente dall’estero. Così, la tesi fu dapprima rifiutata dal relatore e poi accettata dal professore di letteratura francese grazie all’intervento di Leone Ginzburg. Pavese introdusse dei cambiamenti nella stesura finale e tolse le sue traduzioni delle poesie di Whitman, rimaste inedite per quasi un secolo. 

Dopo la laurea iniziò a lavorare come traduttore per guadagnarsi da vivere e prese a insegnare l’inglese che nel frattempo aveva imparato benissimo senza aver mai avuto la possibilità di soggiornare né in America né in Inghilterra. Nel 1931 venne pubblicata a Firenze per Bemporad la sua prima traduzione con relativa recensione del romanzo Il nostro Signor Wrenn di Sinclair Lewis, primo autore americano a ricevere il Nobel. Seguiranno traduzioni di opere celebri della letteratura statunitense, e non, all’epoca sconosciute in Italia: per un compenso di 1000 Lire tradusse Moby Dick di H. Melville e Riso Nero di S. Anderson al quale dedicò un saggio, poi due romanzi di Dos Passos Il 42° parallelo e Un mucchio di quattrini, Ritratto dell’artista da giovane di J. Joyce, Uomini e topi di J. Steinbeck, La formazione dell’unità europea di C. Dawson, Il cavallo di Troia di C. Morley, Il borgo di W. Faulkner, Capitano Smith di R. Henriques, La rivoluzione inglese del 1688-1689 di G. Trevelyan, Prometeo liberato di P. B. Shelley e collaborò anche alla traduzione delle avventure di Topolino apparse in due volumetti presso l’editore Frassinelli. Pavese pubblicò con le maggiori case editrici italiane Mondadori, Bompiani, Bemporad, Einaudi e fu anche autore di articoli di critica letteraria su alcuni autori americani per la rivista La Cultura. 

Il 1° maggio 1938 diventò ufficialmente redattore di Einaudi e iniziò un’attività editoriale intensa, ricoprendo incarichi diversi  di vario livello, avviò e curò alcune collane fra cui Narratori stranieri tradotti e Biblioteca di cultura storica, traducendo Moll Flanders di D. Defoe, David Copperfield di C. Dickens e L’autobiografia di Alice Toklas di Gertrude Stein della quale tradusse anche il romanzo in tre racconti lunghi Tre esistenze

Pavese dedicò alla traduzione della letteratura anglo-americana la stessa passione con la quale aveva cominciato a leggerla per conoscerla, passione che considerava fondamentale per garantire una buona resa traduttiva:

Per tradurre bene, bisogna innamorarsi del materiale verbale di un’opera, e sentirsela rinascere nella propria lingua con l’urgenza di una seconda creazione. Altrimenti è un lavoro meccanico che chiunque può fare. (da una sua lettera a Bompiani)

La lettura del romanzo di Sinclair Lewis Babbitt fece nascere in lui il desiderio di capire appieno lo slang contemporaneo americano. L’intenso scambio epistolare con Antonio Chiuminatto gli fu utile per impararlo e per renderlo al meglio traducendo non solo Lewis ma anche Anderson. Pavese si impegnò a tradurre il mondo descritto nei romanzi americani, quel mondo fatto di cose pratiche e tangibili che tanto lo affascinavano, nel modo più veritiero possibile e, a questo scopo,  cercò di conservare nella resa gli elementi nuovi della lingua parlata dell’originale,  contrapponendosi ai modelli letterari e linguistici imposti dall’ideologia del regime e alla tendenza di tradurre la letteratura straniera con l’italiano tradizionale com’era in uso nella prima metà del Novecento. La testimonianza della sorella Maria chiarisce bene la sua grande passione per la traduzione e per la ricerca linguistica scrupolosa:

Da giovane, quando traduceva ore e ore, per fare più in fretta, lui dettava e io scrivevo. Era molto meticoloso, non si preoccupava soltanto di tradurre, così, alla buona, ma cercava di ricreare, di riprodurre fedelmente il mondo dell’autore; scriveva in America per farsi mandare la traduzione esatta dei termini tecnici gergali, ad esempio nautici quando traduceva Moby Dick per l’editore Frassinelli. Non so come abbia fatto, è “un mattone”…

Ma, contrariamente al giudizio della sorella, il romanzo   melvilliano rimase sempre il suo prediletto, perché Pavese trovò nell’atmosfera dell’opera un clima carico di suggestioni e di intenso coinvolgimento emotivo e nella figura del capitano Achab, ossessionato dalla caccia alla balena bianca, quasi un alter ego. 

Pavese ha avuto il merito di aver sprovincializzato la letteratura italiana, chiusa nelle maglie del regime, facendole varcare i confini e farla approdare in un universo nuovo. Ha agito da mediatore culturale tra due paesi distanti fra loro non solo geograficamente ma anche per il modo di fare poesia e narrativa, ed è stato un modello d’ispirazione per i giovani scrittori e traduttori dell’epoca che ammiravano quelle opere tradotte, soprattutto per la loro aderenza alla vita reale:

Da ragazzi leggevamo le traduzioni di Pavese e di Vittorini ed eravamo trascinati dal loro entusiasmo a scoprire con loro un mondo insospettato e un linguaggio autentico e carico di realtà. (F. Pivano, America rossa e nera) 

La scoperta di un orizzonte linguistico e culturale più reale e vitale da contrapporre a quello provinciale e angusto dell’Italia tra le due guerre, che non lasciava spazio agli impulsi creativi dei giovani scrittori, coincise anche con la scoperta di una patria ideale e della propria identità: laggiù noi cercammo e trovammo noi stessi, come scrisse Pavese nell’articolo Ritorno all’uomo del 1945 apparso su L’Unità, parlando a nome di tutti coloro che condivisero con lui l’amore per la letteratura  americana. 

Fonti:

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