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Lusofoniamo: “Escrever é traduzir”, José Saramago

Nel curriculum del Nobel per la letteratura José Saramago (1922-2010), tra i tanti mestieri precedenti la sua carriera di autore, non poteva mancare la professione di traduttore.

Le umili origini, la sua fame di conoscenza e, perché omettere tale dettaglio, il sincero bisogno di integrare al suo stipendio qualche soldo in più, lo hanno spinto a fare questo esperimento. 

Tentativo riuscito perché, come riporta la Fundação José Saramago, tra il 1955, anno di pubblicazione della sua prima traduzione A centelha da vida di Erich-Maria Remarque, e il 1983, Saramago ha tradotto circa sessanta opere. Come è stato possibile? 

Le sue traduzioni erano di ottima qualità, non necessitavano di grandi revisioni e le pubblicavano in un batter di ciglio, come spiega Ana Paula Ferreira nel suo articolo “Tradução e utopia pós-colonial: a intervenção invisível de Saramago” (2014). 

Quale era la Source Language prediletta del traduttore Saramago? Il francese, lingua e letteratura che ha studiato da autodidatta come un topo da biblioteca, sfogliando tutto ciò che gli passasse sottomano. La sua “educazione letteraria anarchica e piena di lacune” (Saramago apud Gómez Aguillera, 2010, p.81 Traduzione mia) gli ha comunque fornito gli strumenti per tradurre autori del calibro di Guy de Maupassant, Colette e Jules Roy. Inoltre, su commissione di vari editori, ha utilizzato il francese come lingua ponte per traduzioni indirette – pratica comune nel Portogallo dell’epoca – tra cui la versione lusitana Ana Karenine di Lev Tolstoj.

Ben conosciamo il Saramago scrittore, le sue geniali licenze linguistiche e ortografiche che hanno incoronato la virgola come regina dei suoi testi (consiglio di leggere “Cecità” per avere un assaggio del suo stile), ma sappiamo ben poco del suo ruolo da mastro traduttore.

Non scoraggiamoci. Per fortuna Saramago vive ancora nel suo Caderno, cronache dal tono familiare inserite nel blog Outros Cadernos de Saramago in cui esprime personali considerazioni sul Traduzir:

Scrivere è tradurre. Lo sarà sempre. Anche quando stiamo utilizzando la stessa lingua. Trasformiamo quello che vediamo e che sentiamo […] in un codice convenzionale di segni, la scrittura, e lasciamo alle circostanze e alle casualità della comunicazione la responsabilità di far arrivare all’intelligenza del lettore, non la totalità dell’esperienza che ci siamo riproposti di trasmettere […], ma almeno un’ombra di ciò che nel profondo del nostro spirito sappiamo essere intraducibile, per esempio, la pura emozione di un incontro, la meraviglia di una scoperta, quell’istante fugace di silenzio precedente alla parola che resterà nella memoria, come il resto del sogno che il tempo non cancellerà mai del tutto. Il lavoro di chi traduce consisterà quindi nel passare in un altro idioma (all’inizio, il proprio) ciò che nell’opera e nella lingua di partenza era già stato “traduzione”, vale a dire, una determinata percezione di una realtà sociale, storica, ideologica e culturale che non appartiene al traduttore, corroborata, tale percezione, da una trama linguistica e semantica ugualmente non sua. Il testo originale rappresenta solo una delle “traduzioni” possibili dell’esperienza della realtà oggetto della sua attenzione […] Per il traduttore, l’istante di silenzio antecedente la parola è dunque come l’inizio di una transizione “alchemica” in cui ciò che è necessita di trasformarsi in un’altra cosa per continuare a essere ciò che era stato. Il dialogo tra l’autore e il traduttore, sul rapporto tra il testo che è e il testo che sarà, non è solo fra due particolari personalità che si devono completare, ma è soprattutto l’incontro di due culture collettive che devono riconoscersi.

(Traduzione mia)

Da artigiano delle parole, il traduttore di Saramago diventa un alchimista capace di trasformare una determinata lingua in un’altra, come metallo in oro. Una magica trasmutazione del testo di partenza che apparirà, agli occhi dei lettori, come ciò che era, continuando a trasmettere il suo contenuto originale e la sua dimensione culturale. 

Gli scrittori creano la letteratura nazionale, mentre i traduttori rendono universale la letteratura. Senza i traduttori, noi scrittori non saremmo nulla, saremmo condannati a vivere chiusi nella nostra lingua.

(Saramago apud Gómez Aguillera, 2010, p. 198 Traduzione mia)

Tali parole esplicitano la fiducia saramaghiana nell’indissolubile legame tra autore e traduttore, binomio ad hoc per descrivere la missione universale di Saramago: traduttore invisibile, non acclamato come avrebbe meritato, ma geniale scrittore anticonformista.

Selenia Amato

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