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Karen, quando un nome racconta una storia che non conosciamo

LeBron James è un giocatore dei Los Angeles Lakers: 36 anni, campione NBA in carica, premiato come migliore in campo alle finali 2020. Un’icona dello sport ben oltre la pallacanestro, idolo di tifosi e appassionati spesso attratti dalla sua fama e non solo dalle sue prodezze. Un bersaglio facile anche per i detrattori: puntare il dito contro di lui, contestarlo e offenderlo fa sempre rumore. È quanto accaduto il 1 febbraio ad Atlanta, quando alcuni tifosi avversari sono stati allontanati dai loro posti in prima fila dopo aver battibeccato – e offeso, andando ben oltre il consentito – LeBron.

Vi starete chiedendo: la traduzione in tutto questo cosa c’entra?

Entra in scena in quello che è successo al termine della partita, quando James ha scritto un tweet sul suo account per scherzare su quanto messo in scena dai contestatori che si erano scagliati contro di lui:

Courtside Karen was MAD MAD”, si legge. Tra le persone allontanate dal parquet infatti non era passata certo inosservata la presenza di un’appariscente bionda di 25 anni, infuriata mentre la sicurezza le indicava l’uscita. La contestatrice, Juliana Carlos, ha poi continuato a polemizzare sull’accaduto via Instagram, raccontando a suon di offese una versione diversa della storia.

Aspettate un attimo: Juliana o Karen? No, sul nome di battesimo non ci sono dubbi, così come sulle reazioni scatenate dalla frase pubblicata su Twitter da LeBron – ripresa da compagni e colleghi divertiti e pronti a sbellicarsi dalle risate. Perché Karen quindi? Perché chiamarla così?

La risposta sta nella storia che quel nome racconta.

Nello slang americano Karen è un nome che ha assunto negli ultimi anni un’accezione nota a tutti coloro che frequentano i social negli USA: “Karen è una donna di mezza età, tipicamente bionda, con un determinato taglio di capelli, che elargisce soluzioni fuori luogo a problemi non suoi e che in realtà non la riguardano”, si legge nelle descrizioni date dai dizionari relativi al linguaggio colloquiale.

Esempio: Karen è colei che “chiede di parlare con il direttore” lamentandosi di ciò che accade in ufficio, Karen è colei che compie gesti fuori luogo e non se ne rende conto, come chiedere a un ragazzo afroamericano di farle toccare i capelli “perché solo tu li hai così ricci”. La pandemia da COVID-19 ha poi accentuato questa tendenza, rendendo Karen un meme permanente ancora più diffuso: Karen è la donna che non mette la mascherina nei negozi, Karen crede che il virus non esiste, Karen vìola i divieti della quarantena.

Una dicitura diventata virale negli ultimi mesi, quando lo scorso 25 maggio – lo stesso giorno in cui è stato ucciso George Floyd – una Karen a passeggio con il cane ha denunciato a New York un uomo di colore che stava facendo osservazione di uccelli in un parco (anche in quel caso ci ha messo lo zampino Twitter, visto che il messaggio rilanciato migliaia di volte iniziava con: “Oh, when Karens take a walk with their dogs off leash…”). L’unica colpa dell’uomo denunciato alla polizia nel video era quella di essere di colore e la coincidenza temporale con quanto accaduto a George Floyd – afroamericano morto in quelle ore per soffocamento durante un fermo di polizia – ha fatto il resto. Karen insomma è diventato il modo in cui il movimento Black Lives Matter ha iniziato a chiamare chi discrimina a priori le minoranze.

Il genere di persona è chiaro insomma, ma la domanda resta: perché Karen? Nessuno lo sa, anche perché non esiste una “Karen zero” (nonostante alcuni pensassero a Karen Goodfellas, protagonista del famoso film di Martin Scorsese del 1990). È facile invece individuare una ragione anagrafica a tutto questo: Karen era un nome molto diffuso negli anni ’60 – addirittura il terzo più utilizzato per le bimbe nate nel 1965, scivolato nel 2019 al 637° posto – e quindi oggi associato a donne di una certa età e che nello stereotipo di molti rappresenta la donna bionda bambola bianca (senza virgole) che non rinuncia ai propri privilegi.

La descrizione esatta di Juliana Carlos – che adesso potrete andare a cercare sui social – come fatto notare da LeBron.

Tradurre quel tweet scrivendo soltanto “Karen” sarebbe dunque sbagliato, oltre a non rendere il senso di quanto raccontato dalla frase. Le parole, anche i nomi propri, spesso nascondono una storia. Sta a noi scoprirla, altrimenti come facciamo a ridere delle battute fatte da LeBron James?

Stefano Salerno

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